Se la materia prima non è tutta uguale come si fa a capire quale è il suo livello qualitativo?

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 Un’ entità astratta, informe, ma che in un modo o nell’altro, però, sappiamo sempre riconoscerla. È la qualità, terra di tutti e nessuno, combinazione di pensieri oggettivi e soggettivi, eppure a cercarne una definizione sembra perdersi nei meandri di un linguaggio che esso stesso non sa definirla.

Quando diciamo che un formaggio è buono, infatti, che cosa intendiamo? E per una pasta che parametri utilizziamo? Un pane? Un pezzo di carne con che cosa lo confrontiamo?

Secondo Roberto Rubino, Presidente dell’Associazione Nazionale Formaggi sotto il Cielo (ANFOSC,) che da anni milita nel mondo scientifico alla ricerca del gusto “difficilmente si riesce a capire davvero la qualità di un prodotto perché si tende a misurarla secondo termini che nulla hanno a che vedere davvero con la qualità”.

Il mondo della Grande distribuzione, infatti, ci suggestiona irrimediabilmente, insinuando in noi cosa è buono e cosa non lo è. Prendiamo come esempio il banco frutta e verdura di un supermercato.  Nel mare magnum delle patate che viene offerto quale scegliere?

A ben vedere l’asticella del prezzo cambia ben poco da un sacchetto all’altro, spesso giocato con uno scarto di pochi centesimi basato sul solo sottocosto.

Come scegliere allora? La guerra al centesimo non sembra essere esattamente il punto di partenza al quale riferirsi nella ricerca della qualità, se il gusto dipendesse dal prezzo, infatti, tutte le patate dovrebbero essere uguali, eppure non è così, ci sono patate che hanno sapore e gusto da vendere.

Ma se il prezzo del latte alla stalla è quasi sempre uguale in ogni regione e quello del grano lo segue a ruota, il reale livello qualitativo di questi prodotti, non è, però, uguale per tutti e, noi pur senza saperlo, ce ne accorgiamo quando li mangiamo.

Come fare, allora, a capire cosa comprare? La verità, purtroppo, è che se il mercato non ci aiuta (e neppure il banco frutta del supermercato), noi comunque non abbiamo gli strumenti per saperla riconoscere.

Nessuno ci ha istruito in merito e produttori e consumatori sono al pari disarmati, perché non hanno le parole chiavi per decidere quale sia il livello da produrre o da acquistare e soprattutto come riconoscerlo.

 Il confronto tra prodotti

Rubino, però, ci prova e chiede al consumatore stesso, in assenza di parametri, di costruire un suo primo abecedario in tema di gusto.

Propone un metodo che ha perfezionato nel tempo, quello del confronto tra alimenti di una stessa categoria.

Il suo è un metodo di facile apprendimento, senza punteggi né inutili retoriche che mette in pratica in sessioni di degustazioni tenute in giro per l’Italia “se mettiamo da parte i messaggi pubblicitari, le recensioni e i consigli e ci affidiamo solo alla pratica continua degli assaggi saremo sempre in grado di riconoscere la qualità quando si presenterà nel nostro piatto”.

Nelle sue degustazioni infatti, sceglie alimenti di una stessa tipologia, il cui livello qualitativo, però, è diverso.  In questo modo, ad esempio, vengono posizionate in fila cinque patate o cinque caciocavalli che vengono così visti e mangiati per quello che sono, accettando la sfida di essere giudicati attraverso un confronto.

Simili, ma non identici appunto “visto che si tratta di alimenti prodotti in modi differenti, tra allevamenti intensivi o al pascolo per le carni, piuttosto che da terreni coltivati con rese per ettaro sensibilmente inferiori rispetto ad altri per le patate o per i grani”.

Nelle sue lezioni, però, non rileva mai queste informazioni inizialmente “mi limito solo a stimolare la mente del degustatore, chiedendogli di individuare quale sia l’alimento che percepisce come qualitativamente migliore e soprattutto a trovarne la sua motivazione”.

E alla fine si finisce quasi sempre a riconoscere come migliore quel pezzettino di cibo che ha un profumo più intenso o con una maggiore persistenza percepita nel palato.

Queste le motivazioni spesso addotte dagli avventori di turno infatti “e che corrispondono esattamente a quelle legate alla qualità di un cibo, una qualità che a sua volta è indissolubilmente legata alla nutrizione di quell’animale o al terreno sul quale è stata coltivata quella patata”.

Secondo Rubino, dunque, l’origine della qualità è la terra stessa. Ed è una qualità che sembra sempre raccontare di pascoli e fioriture. Così suoli fertili e rese basse gli indici per valutare la qualità di un grano, così come dell’intero mondo vegetale, mentre quella delle carni e dei formaggi è nei pascoli “E’ la diversità delle varietà erbacee – che garantisce loro un’alimentazione sana. Sono questi gli elementi che determinano la qualità di un cibo, e che, attraverso una degustazione dovremo provare a carpire”.

 Mi piace? È buono? Perché?

Non potendo, però, conoscere il singolo casaro di turno o l’allevatore di quel pezzo di carne che stiamo addentando e chiedergli come è stato prodotto, è allora ad una serie di parametri, che diventano indicatori della qualità, ai quali possiamo attingere e che in un metodo a confronto diventano quasi immediati da riconoscere.

 La vista

È possibile definire una vera e propria impronta gustativa collegata al cibo buono “il formaggio di qualità, ad esempio, è noto per le sue sfumature di colore che cambiano in base alla stagione del pascolo e alla qualità dell’erba che mangiano”.

Quelli di montagna tendano molto spesso a colori gialli, quasi arancioni: “perché il colore negli alimenti dipende da un protagonista principale: i carotenoidi, con funzione colorante e antiossidante”. Si tratta di molecole che sono contenute principalmente nell’erba. Quella che, appunto, dovrebbero mangiare gli animali da pascolo. E il numero di queste sostanze, in misura maggiore o minore, dipenderebbe, poi, dalla specie vegetale, dalla fertilità del suolo, dall’intensità della luce, dalla latitudine e dall’altitudine.

“Ecco perché quando la mozzarella è bianca, quasi pallida, allora, come diceva Totò, è meglio desistere!”

Dalla cromia dei gialli si passa, poi, a quella dei rossi, e quel rosa che tanto ricerchiamo nella carne “significa solo che quella carne è anemica” sorride Rubino “visto che i responsabili del trasferimento del colore nelle carni sono i flavonoidi”. Anche queste molecole contenute principalmente nell’erba fresca mangiata dal bestiame da pascolo “e se gli animali mangiano erba la carne sarà conseguentemente più scura”.

Ricercare nuove scale di pantone, allora è la strada verso il vero gusto.

L’odore  e il gusto

Allevato in stato brado e semibrado, alimentato prevalentemente con ghiande e altre piante spontanee della zona. Ma tutto questo, però, come viene registrato dal nostro naso e, soprattutto, come si trasforma nel palato?

La variabilità di erbe presenti nella razione alimentare di un animale non influenza solo il suo colore, ma anche la carica aromatica di quello che produrrà.

C’è, infatti, una stretta correlazione tra colore e profumo e tutti sembrano ricondurre alla salubrità della terra “ecco perché i prodotti ottenuti da terreni allevati con rese sostenibili risultano sempre più carichi di colori, sono più profumati e soprattutto saporiti”.

Quanto al gusto, infatti, molta letteratura scientifica sembra confermare che i principali responsabili della persistenza del latte, del formaggio così come delle carni, siano i composti a più alto peso molecolare e tra questi un ruolo determinante è sicuramente da attribuire al numero e alla massa dei metaboliti”.

Sarebbero queste, quindi, le molecole responsabili quando si parla di gusto e della sua persistenza e se la terra è satura di sostanze utili per le piante (e conseguentemente poi per gli animali) “il suolo diventa fertile ed è da qui che aumenta il numero di queste molecole”.

Ecco, allora, perché un pane prodotto con basse rese sa inebriare le narici e restare al palato in un tempo indefinito “ma vale anche per la pasta, per le patate e per tutti i cibi prodotti dagli animali da pascolo”.

Rubino non chiede di andare alla ricerca dei metaboliti “ma è da soli che saremo in grado di appurare la bontà o meno di un cibo se ci soffermiamo a sentire il suo odore o a capire cosa succede nel nostro palato quando mastichiamo, senza deglutire immediatamente e dopo averlo fatto a stare lì fino a quando il sapore non svanirà”.