Quale emozione proviamo quando osserviamo un campo di grano tutto perfetto e senza infestanti o un pascolo con infestanti? Dipende dall’occhio di chi guarda se conosce il ruolo delle infestanti
Io mi occupo di agricoltura e di sistemi produttivi. Nel corso della mia lunga carriera ho avuto modo di verificare che il rapporto con il territorio, la lettura che ne è stata data oscilla fra l’agiografia e la depressione, fra l’esaltazione di paesaggi, razze animali, prodotti di un misterioso altissimo livello e lo sfasciume idrogeologico, il degrado dei pascoli, le frane, la povertà. Da una parte si continua ad esaltare la unicità di un determinato sistema o prodotto e dall’altra si chiede assistenza, aiuti perché: “così non si può andare avanti”. Ed ecco allora che, di volta in volta, il settore ha dato sfogo alla fantasia inventando modelli di assistenza o di sviluppo molto creativi: adotta una pecora, o una vacca, una pianta. In questo modo il produttore riceve in anticipo i soldi che prenderebbe alla fine del ciclo produttivo e, di questo, se ne sente orgoglioso e il consumatore avverte un senso di soddisfazione per aver contribuito a trattenere sul territorio un addetto all’agricoltura. Ad entrambi sfugge una regola elementare: il prodotto va pagato il giusto perché alla lunga l’elemosina non paga. Invece così non è, le materie prime sono commodity, il prezzo è unico a livello mondiale e quasi mai è legato alla sua qualità. Di qui l’effetto più macroscopico: i prodotti non industriali, meno intensivi, prevalentemente di montagna e collina, sono pagati poco e male. Non solo. Ma non ne viene riconosciuto il valore ed il livello qualitativo. Allora che senso ha penalizzare, da una parte, il prodotto e il produttore con un prezzo basso e poi darsi da fare per cercare di aiutarlo?
Per molti anni si è parlato anche di valore immateriale del verde, dei parchi, dei pascoli, dei sistemi aperti. Perché immateriale e non materiale? Sempre per questo approccio bucolico verso l’agricoltura e il paesaggio.
Invece quella pecora, quel pascolo, un valore ce l’hanno e, se così è, l’adozione non deve essere un atto caritatevole bensì il riconoscimento di un giusto valore.
Quale è questo valore e come rimane legato a quel particolare paesaggio o pascolo o persino erba?
Ancora prima di addentrarci nell’esposizione dei fattori che contribuiscono a determinare la specificità di un sistema o di un prodotto, c’è da dire che finora l’adozione è stata correlata con qualcosa o qualcuno che avesse una connotazione positiva: la pecora, un albero millenario, un bel paesaggio, un fiume.
Io, senza accorgermene, ho finito per adottare qualcosa che già dal nome trasmette una connotazione negativa: le infestanti. Chi non avesse mai sentito parlare di queste erbe, per sommi capi, capisce che stiamo parlando di qualcosa che procura fastidio al produttore e persino al gitante della domenica. L’infestante è quell’erba, quelle erbe che si intrufolano nei campi coltivati e stanno dove noi non vorremmo che stessero. Quando vediamo un campo di grano, tutte quelle spighe uguali, allineate ci rimandano alla perfezione della natura e se c’è una spiga di orzo, di segala, una veccia azzurrina che si arrampica lungo le spighe ci danno fastidio perché disturbano la linearità di quel quadro. Quando vediamo un gregge di pecore o una mandria di vacche tutte uguali, perfette nella morfologia e nella distribuzione del colore del mantello, se un solo animale dovesse presentare macchie uniformi sarebbe un colpo nell’occhio, insomma, una pecora nera.
Nei testi scolastici, ma anche scientifici le erbe vengono distinte in foraggere, se coltivate e date agli animali, o infestanti. Partendo da questa logica e per produrre grandi quantità di erba, i campi vengono seminati spesso con una, al massimo due erbe. Una volta esistevano i prati polifiti, nei quali venivano utilizzate 5-6 varietà di erbe; oggi sono molto rari perché meno produttivi. Nei pascoli naturali, dove solitamente passano il loro tempo gli animali allo stato brado, il numero delle erbe, che in questo caso non si chiamano infestanti, può arrivare anche al centinaio. Nei campi di grano invece, per eliminare le infestanti, si usano gli erbicidi.
Studiando il comportamento degli animali al pascolo, ci eravamo accorti che gli animali gestivano in maniera perfetta la loro dieta, selezionando di volta in volta essenze diverse in relazione allo stato vegetativo della pianta ed anche all’appetibilità che l’erba aveva in quel momento della giornata. Anzi, per alcune che si ritenevano dannose, gli animali mostravano una netta preferenza. Incuriositi da ciò, incominciammo a studiare le singole erbe, una ventina, provando a analizzare gli stessi parametri che studiavamo nel latte: il rapporto omega6/omega3, le componenti volatili, i terpeni e persino i fenoli. Ci accorgemmo allora che ogni erba apportava stessi nutrienti, anche se in quantità diverse.
Del resto chiunque, passeggiando su un prato fiorito, soprattutto verso l’estate, quando le piante iniziano a seccarsi e le molecole a concentrarsi, sfiorando erbe diverse sente profumi completamente diversi. La fanno da padrone le erbe aromatiche: la nepeta è la più potente, e poi l’origano, il timo, le fragole. Naturalmente l’animale queste erbe le sfiora appena, troppo aromatiche, quanto basta per marcare l’aroma del latte e del formaggio. Alla fine, abbiamo capito e preso atto, e sembra la scoperta dell’acqua calda, che ogni erba apporta lo stesso patrimonio di molecole ma in contenuto diverso e che, quindi, più erbe diverse mangia l’animale e più alta sarà la complessità aromatica e nutrizionale del latte.
Ma siccome quelle erbe vengono utilizzate dall’animale per la propria alimentazione e il fatto che abbiano quella ricchezza nutrizionale, va da sé che ne risentiranno positivamente la qualità della razione e il benessere dell’animale
Che tutto questo sia vero lo può verificare chiunque degustando un semplice burro o una ricotta, appena fatti, lo stesso giorno in cui il latte è stato munto, senza aspettare anni di stagionatura. Se il latte proviene da vacche al pascolo, il burro e la ricotta sono giallini, perché i carotenoidi sono abbondanti, il profumo è leggero ma si sente l’erba, il sapore è lungo, variabile perché la componente fenolica, legata alle erbe, è importante. Se invece ci troviamo di fronte a vacche alla stalla il loro colore sarà bianco, quindi pochi carotenoidi, nessun odore e il sapore dura un attimo, perché i fenoli e i terpeni sono ai minimi termini.
Eppure il sistema produttivo prevalente, la cultura ufficiale, continuano ad osannare i sistemi alla stalla, dove gli animali mangiano razioni a base di una sola erba e tanti concentrati, e dove si privilegiano erbai con qualche erba a scapito dei prati polifiti.
E che dire dell’erba medica, considerata sin dai tempi di Columella, 40 avanti Cristo, la regina delle foraggere, il cui primo sfalcio, quasi mai puro e quindi ricco di infestanti, viene considerato di scarsa qualità, mentre dal secondo in poi, data la purezza, ritorna di grande qualità.
Ecco perché oggi, quando guardo un campo coltivato, se vedo macchie di colore penso che il raccolto sarà buono, se invece domina il monocolore penso a quanta strada c’è ancora da fare. Se vedo un gregge con animali tutti della stessa taglia e colore mi intristisco, mentre sorrido quando noto un’allegra mescolanza.
Ogni tanto qualcuno raccomanda ai giovani di essere eretici, di osare, a me piace dire alle erbe: siate infestanti.