Lattosio: quali formaggi mangiare e quali evitare

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Cos’è il lattosio?

Il lattosio è un disaccaride ed è presente solo nei mammiferi: ne troviamo mediamente 7 g / 100 ml nel latte umano, 3-5 g / 100 ml nel latte di vacca, mentre è trascurabile nei mammiferi marini. Per essere utilizzato, il lattosio viene idrolizzato dall’enzima lattasi in due monosaccaridi: il glucosio e il galattosio. Questi due zuccheri vengono assorbiti dagli enterociti intestinali nel flusso sanguigno: il glucosio viene utilizzato come fonte di energia e il galattosio diventa un componente dei glicolipidi e delle glicoproteine.

Già dall’ottava settimana di gestazione l’attività della lattasi si può rilevare sulla superficie della mucosa dell’intestino umano. L’attività aumenta fino alla trentaquattresima settimana 34 e alla nascita è al picco. Dai dai primi mesi di vita, l’attività della lattasi comincia a diminuire. In molti mammiferi, essa declina in modo variabile.

Nel mondo, circa il 30% della popolazione ha un’attività della lattasi che si protrae oltre lo svezzamento e in età adulta. Questo accade soprattutto in Europa, dove vi è una lunga tradizione di allevamento da latte.

L’intolleranza esiste, ma spesso è sopravvalutata

Ippocrate descrive la prima intolleranza al lattosio già 400 anni prima di Cristo. Ma i primi sintomi clinici sono stati riconosciuti solo negli ultimi 50 anni. Oltre il 70% della popolazione mondiale è lattasi non persistente, ma non tutti sono intolleranti al lattosio, perché molti fattori nutrizionali e genetici ne influenzano la tolleranza. L’origine etnica influenza la frequenza d’intolleranza al lattosio. Negli adulti europei, nord americani e australiani, vi è la più bassa percentuale d’intolleranza: dal 5% nella popolazione britannica al 17% in Finlandia e nord della Francia. In Sud America, Africa e Asia, oltre il 50% della popolazione ha lattasi non persistente. In alcuni paesi asiatici questo tasso è del100%. Il tasso di perdita di attività della lattasi varia in relazione all’etnia anche se ancora non se ne conoscono le motivazioni. I cinesi e i giapponesi perdono 80-90% dell’attività della lattasi 3-4 anni dopo lo svezzamento, gli ebrei e gli asiatici perdono oltre il 60-70% diversi anni dopo lo svezzamento, mentre negli europei l’attività della lattasi raggiunge il minimo dell’espressione intorno ai 20 anni.

Il test del lattosio di solito consiste nel somministrare 50 g di lattosio per via orale (equivalente a quello contenuto in 1 l di latte) e misurare i livelli di respiro dell’idrogeno nelle successive 3-6 h. L’analisi può dare falsi risultati negativi fino  a 20% dei pazienti con un cattivo assorbimento al lattosio, a causa di una predominante popolazione di batteri produttori di metano che, nell’intestino, utilizzano l’idrogeno per ridurre l’anidride carbonica a metano o in conseguenza di una cura a base di antibiotici. Spesso, c’è interferenza e competizione fra diversi ceppi di batteri nel tratto gastrointestinale, che porta a una significativa escrezione di idrogeno, così come a una moderata produzione di metano. In alcuni soggetti, vi è un risultato positivo senza che i soggetti abbiano avuto alcun sintomo d’intolleranza al lattosio. Ciò indica che questi soggetti hanno un cattivo assorbimento di lattosio, ma non i relativi sintomi a causa di una personale dieta adeguata.

I sintomi tipici d’intolleranza al lattosio includono dolore addominale, gonfiore, flatulenza, diarrea, e in alcuni casi, nausea e vomito. In alcune situazioni, la motilità gastrointestinale diminuisce e i soggetti possono presentare una possibile costipazione come conseguenza della produzione di metano.

Ma non sempre questi sintomi conducono all’intolleranza al lattosio. E’ stato verificato che almeno il 20% dei pazienti con sintomi apparenti d’intolleranza al  lattosio risulta allergico alle proteine del latte.

E’ stato anche dimostrato che, dopo un periodo di esclusione del lattosio e di cessazione dei sintomi, un’assunzione fino a 240 ml di latte (12 g di lattosio) è spesso ben tollerata. Inoltre, la reintroduzione di lattosio può aiutare a diminuire i sintomi d’intolleranza al lattosio poiché vi può essere un adattamento della microflora del colon, per cui il lattosio si comporta come un prebiotico. Un dato interessante e utile, in una società dove l’aggiunta di lattosio nei prodotti alimentari è in aumento.

Veniamo ora al ruolo del lattosio nei latticini e nei formaggi e alla sua presenza nel prodotto finito.

Il latte all’origine era l’alimento base dei bambini appena nati e il lattosio aveva la funzione di apportare energia per la crescita. Con la domesticazione, l’uomo ha dovuto inventarsi un metodo per utilizzare il latte che avanzava dopo l’allattamento. Di qui la nascita dei latti fermentati e dei formaggi. In questi casi il ruolo del lattosio è fondamentale, perché diventa un ottimo terreno di coltura per i batteri lattici, indispensabili a loro volta nella fase di coagulazione del latte e nella successiva acidificazione della cagliata. In pratica, dopo alcune ore dalla mungitura, i batteri scindono il lattosio in galattosio e glucosio trasformando solo quest’ultimo in acido lattico. Mano a mano che però l’acidità aumenta l’attività dei batteri lattici rallenta o si blocca. Ecco perché nello yogurt permane una quantità importante di lattosio. Nei formaggi invece gran parte del lattosio viene subito degradata, la parte rimanente se ne va nel siero e che ritroveremo nella ricotta. I formaggi contengono ancora, all’inizio della maturazione, lo 0,75-1,5% di lattosio, che i batteri lattici consumano quasi rapidamente.

 Quale è il contenuto di lattosio nei vari formaggi?

Sul tema sono state fatte numerose ricerche, ma noi possiamo riferimento alle due pubblicazioni effettuate dal gruppo di Laura Pizzoferrato e di Pamela Manzi dell’ex Istituto Nazionale della Nutrizione, oggi CRAE: Composizione di formaggi DOP italiani. Manzi P., Marconi S., Di Costanzo M.G., Pizzoferrato L. La Rivista di Scienza dell’Alimentazione, anno 36, 2007 e Pamela Manzi, Maria Mattera, Maria Gabriella Di Costanzo, Stefano Nicoli. Aggiornamento di dati compositivi del settore lattiero-caseario, 2013 (entrambe si possono trovare sul sito del CRAE). Nella prima vengono riportati i risultati relativi ai formaggi DOP italiani. Come c’era da aspettarsi, i formaggi stagionati non contengono lattosio, perché nel corso della stagionatura quel poco di lattosio che è rimasto viene metabolizzato dai fermenti lattici. Gli autori, nel riportare i dati scrivono: “Questi dati sono importanti in particolare per i soggetti intolleranti al lattosio e anche perché troppo spesso i formaggi vengono erroneamente considerati totalmente privi di zuccheri. I formaggi meno stagionati hanno piccole quantità di galattosio (un prodotto dell’idrolisi del lattosio). La molecola di lattosio è presente solo in pochi formaggi freschi: la Mozzarella di bufala campana e la Ricotta romana sono i prodotti che ne contengono di più, 214 e 3867mg/100g sul peso fresco rispettivamente. Altri prodotti presentano piccole quantità di lattosio, ma non in tutti i campioni analizzati (Bra duro, Fiore sardo, Monteveronese, Pecorino romano) e ciò probabilmente a causa del diverso grado di stagionatura tra i vari prodotti dello stesso DOP”.

Ritorniamo un attimo sulle mozzarelle perché, per quanto riguarda il contenuto di lattosio, non sono tutte uguali, o meglio, nel mondo ne esistono due tipologie ben distinte. Per poter filare, la cagliata deve subire un processo di demineralizzazione e perché questo avvenga è necessario che il relativo pH si abbassi almeno su valori di 5,5-5,8. Oggi la stragrande maggioranza delle mozzarelle viene prodotta utilizzando l’acido citrico (che viene riportato in etichetta anche come acidificante), che permette di abbassare immediatamente il pH e di filare la cagliata. In questo modo, però, non c’è fermentazione e nemmeno consumo di lattosio, che ritroviamo tutto nella mozzarella. Invece l’acidificazione ottenuta con metodi biologici, con fermentazione naturale, lenta (in media 18 ore), tipo il Fior di Latte di Agerola o con siero-innesto o latto-innesto, avviene in circa tre ore e il pH si posiziona intorno a 5,0-5,2. Quindi gran parte o quasi tutto il lattosio viene consumato. Non solo, ma la mozzarella è più protetta dall’acidità. In questi ultimi anni, di tanto in tanto scoppia il caso della mozzarella blu, di partite di formaggio infestate da Pseudomonas. Se si legge l’etichetta, certamente si può notare che quella mozzarella è stata prodotta con l’acido citrico. Certo, lo Pseudomonas non colpisce sempre, ma solo quando c’è una concomitanza di condizioni favorevoli come la temperatura di conservazione, la qualità dell’acqua, la catena del freddo. Ma sicuramente l’innesco lo determina l’acido citrico.

Quindi sia lo yogurt sia le mozzarelle contengono quantità variabili di lattosio. In merito allo yogurt,  Ivano de Noni, nel capitolo 6 del libro: Manuale Lattiero Caseario, Volume 1, Tecniche nuove, 2011 scrive: ” Normalmente il 60-80% del lattosio presente nella miscela lattea non viene fermentato e nello yogurt residua quindi una quantità di questo zucchero compresa fra il 2.5 e 5,5%. Sebbene questo contenuto possa essere anche superiore a quello del latte, la presenza di un’attività lattasica batterica rende lo yogurt un prodotto normalmente adatto agli individui lattosio-intolleranti”.

In conclusione, i formaggi stagionati, tutti, non contengono lattosio; quelli freschi ne contengono in piccole quantità; il latte, lo yogurt e la ricotta hanno invece livelli più elevati.

Il latte e i prodotti lattiero-caseari sono spesso indicati come responsabili di sintomi gastrointestinali, ma un divieto inappropriato può portare a un’insufficienza nutrizionale in particolare per l’assunzione di calcio.

E comunque, il patrimonio caseario è talmente variegato e straordinario, i formaggi hanno profumi e una complessità aromatica tali che  privarsene per motivazioni non sempre appropriate, a volte quasi ideologiche,  rappresenta un danno certo rispetto a un beneficio incerto.

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