Perché l’Angus costa di più? Quanto grasso deve avere una carne per essere considerata buona? Queste ed altre le domande che ci poniamo al banco macelleria. Eppure, sembrerebbe che sono proprio le informazioni di base dalle quali partiamo ad essere distorte. Quattro falsi miti sulla carne smascherati da Roberto Rubino, presidente dell’Associazione Nazionale formaggi sotto il cielo (Anfosc).
Il gusto dipende dal grasso
Il grasso non ha sapore né odore, è solo una consistenza percepita dal nostro palato che in termini organolettici, però, sembrerebbe apportare poco o nulla secondo Rubino.
Basti pensare al burro, “un prodotto che contiene almeno l’82% di grasso. Il resto è acqua e alcune tracce di proteine”.
Seguendo il ragionamento di Rubino se il gusto dipendesse dal grasso tutti i panetti dovrebbero essere allora pienamente goduriosi. E, invece, perché il beurre francese d’Échiré venti spanne sopra a quello del banco frigo nel nostro supermercato di fiducia?
Entrambi sono costituiti, poco più o poco meno, dalla stessa percentuale di grasso.
“Perché il grasso è solo un mezzo per trasportare qualcos’altro. Potremo immaginarlo come una locomotiva, ma chi sono i passeggeri nelle carrozze?” È ad altre molecole che il presidente di Anfosc si riferisce, ai polifenoli in particolare. Sono loro, secondo Rubino, i responsabili del gusto, e sempre loro che vengono trasportate, più o meno velocemente, da quel mezzo di trasporto chiamato grasso.
“La qualità dipende da chi trasporti, non da chi è l’autista” e se non ci sono molecole alla prima fermata, mancheranno anche al capolinea. “Una bresaola, non ha neanche un grammo di grasso, eppure esistono delle bresaole che hanno sapore da vendere”.
La carne di Kobe è la migliore al mondo
La carne di Wagyu può raggiungere anche 1000 euro al kg, quella di Kobe intorno ai 500. La razza Limousine si presta meglio alla frollatura, il prosciutto San Daniele è il miglior insaccato italiano. La lista delle convinzioni in tema di razza è lunga e sembra che rinchiuda il nostro palato in uno sgabuzzino gastronomico.
Diamo per scontato che alcune razze, a dispetto di altre, siano precursori sani del gusto, senza neppure concedere l’onere della prova al palato.
Qual è l’alternativa che rimane in campo per capire il gusto allora?
Anziché dire di no a prescindere, si potrebbe almeno valutare l’eventualità. E provare a capire se il nostro modo di mangiare può integrarsi ed evolversi abbattendo i preconcetti: “il prosciutto iberico non è buono in quanto tale, è buono solo se quell’animale è stato alimentato correttamente” – ricordando, poi, come anche questo cult della gastronomia spagnola contenga nella sua carne pochissimo grasso.
“L’Angus sarà buono non in quanto tale, ma solo se alimentato bene”. Non esiste, secondo Rubino, la razza perfetta, ma solo l’animale che ha mangiato meglio “una podolica da pascolo, alimentata solo con erba, lontana da paglia e soprattutto dagli allevamenti intensivi, ha sapore e gusto da vendere”.
Più è stagionato più è buono
Invecchiando si migliora davvero? Lo storytelling attorno al mito delle lancette potrebbe, secondo le teorie di Rubino, essere costruito a tavolino, e i prosciutti dimenticati in cantina diventare non sempre sinonimo di qualità.
“La frollatura accelera il catabolismo, causando la rottura delle fibre, e quindi in questo modo si ottiene una carne più morbida ed elastica, ma si tratta solo di una tecnica, che nulla ha a che fare con il gusto”.
Il sapore del nostro pezzo di carne, quindi, potrà essere esaltato da una maggiore elasticità, ma la frollatura non potrà mai essere la responsabile dell’origine del gusto e a sostegno della sua tesi, il presidente di Anfosc, chiama in causa il mondo della viticoltura, con i suoi grandi vini da invecchiamento che hanno sempre qualcosa di cui parlare solo quando l’annata di partenza è stata sapientemente coltivata e vinificata. “Se c’è base ci sarà allora un grande vino da stappare, ma se il vino di partenza non è di qualità, il tempo non può creare qualcosa che non c’è mai stato”.
È, quindi, di nuovo ai metaboliti e ai polifenoli ai quali Rubino si rivolge “che se non ci sono in partenza non li ritroveremo neanche in punto di arrivo. Il salchichón iberico sarà straordinario solo se era già un campione sin dall’inizio”.
Come ottenere allora questo campionato? Il cerchio sembra sempre ritornare al suo punto di origine: la corretta alimentazione dell’animale.
Pink is the best color
Il rosa appartiene all’epica delle convinzioni in tema di qualità della carne. Quel colore simbolo non fa altro che seguire a una serie di caratteristiche estetiche diffuse già elencate: il grasso, la razza, la frollatura, tutti a conferire quel senso di (dis) illusione nei consumatori.
Va da sé che una carne scura, di un rosso purpureo, parrebbe non far presagire nulla di buono per il consumatore “e invece il rosa è solo l’indizio dell’alimentazione di quell’animale”.
Anemica secondo Rubino, visto che i responsabili del trasferimento del colore in un cibo sono i flavonoidi. Molecole, queste, contenute principalmente nell’erba fresca mangiata dal bestiame da pascolo “e se gli animali mangiano erba la carne sarà conseguentemente più scura e più ricca anche di metaboliti” unici responsabili alla fine del nostro gustoso boccone.
In definitiva, se ad un effetto corrisponde una causa e se la causa del gusto della carne è dipesa dall’alimentazione allora basterà dare una sbirciata ai Disciplinari di produzione.
Così nel beurre d’Échiré la risposta al suo gusto sembra provenire proprio dalla pagine che regolamentano la sua alimentazione e che così precisano: “gli animali devono essere al pascolo e le vacche non possono ricevere più di 1800 kg all’anno (circa 5 kg al giorno) di alimenti concentrati (granaglie, legumi)”. In Italia, invece, le vacche mediamente ricevono intorno ai 12 kg di concentrati al giorno, “il che significa maggiore quantità di latte ma diluizione della qualità” osserva Rubino.
Non diverso è il caso del prosciutto iberico, nel suo disciplinare di produzione, infatti, questo animale, nei suoi ultimi tre mesi prima della macellazione, deve essere al pascolo “è il pascolo della meseta, dove ci sono ghiande e tanto altro da mangiare. È questo che fa la differenza”.
Quanto alle due famose razze giapponesi, nel loro disciplinare, invece, si parla solo di alimentazione alla stalla con mangimi e paglia o al massimo con foraggi di scarso livello. “Gli scienziati spagnoli e giapponesi giustificano la presunta qualità di queste carni affermando che si ha un alto livello di acido oleico o di grassi insaturi. Ma la complessità non può essere spiegata solo dal un grasso insaturo, che al massimo contribuisce a qualche nota odorosa. Il gusto dipende dai polifenoli e anche dai lipidi, anzi da un numero elevato di lipidi che legandosi ai polifenoli danno gusto e soprattutto quella persistenza che ci fa esclamare: questo è una carne!”